LA RICERCA DI CAPRI ESPIATORI
Le difficoltà economiche sono sempre colpa di qualcun altro
Alcuni dei mali che hanno reso l’Italia il nuovo “uomo ammalato d’Europa” possono essere di natura internazionale. Al governo attuale di sicuro piace pensare che lo siano. Il Governo dice anche che l’insieme della UE, e in particolare la zona dell’euro, ha dovuto lottare economicamente, specialmente dopo gli attacchi terroristici americani dell’11 settembre 2001. In Italia, il Ministro della Finanza di allora, Giulio Tremonti, ha subito addebitato al terrorismo la stagnante economia dell’Italia.
Quando è ritornato al suo vecchio lavoro un paio di mesi fa, in seguito alle dimissioni improvvise di Domenico Siniscalco, Tremonti ha trovato subito due nuovi capri espiatori contro cui puntare il dito: l’euro e la Cina. Il significato politico nascosto è stato chiaro a tutti. E’ stato il leader dell’opposizione, Romano Prodi che, come Primo Ministro nel 1998, ha portato l’Italia nella moneta unica europea; e colui che, come ex Presidente della Commissione Europea, potrebbe essere accusato di aver favorito la globalizzazione e l’apertura del mercato europeo alle importazioni cinesi.
Di sicuro lo sfondo macroeconomico degli ultimi anni è stato sfavorevole per l’Italia. Un ristagno e un invecchiamento della popolazione italiana hanno fatto poco per la domanda interna. La politica fiscale è stata inevitabilmente vincolata: il governo precedente ha dovuto ridurre notevolmente il debito per poter entrare nell’euro, e quello attuale ha avuto le mani legate dal patto di stabilità e crescita della UE. Nei primi anni, la politica monetaria della Banca Centrale Europea è stata forse troppo restrittiva nei confronti di Paesi come l’Italia e la Germania, ripercuotendosi sulla difficoltà di stabilire un tasso d’interesse unico che soddisfacesse 12 economie estremamente diverse.
Ma la maggiore debolezza dell’Italia negli ultimi anni, è legata alle sue esportazioni (vedi tabella 2). Il più grande mercato di esportazione è la Germania, la cui economia non è stata molto vivace per cui le importazioni sono state fiacche, nonostante le sue esportazioni siano cresciute. L’Italia soffre del problema opposto: il consumo interno gode ragionevolmente di buona salute, ma la sua competitività sta slittando, cosa che ha portato ad una caduta nella sua quota delle esportazioni mondiali.
E qui è dove entra in gioco l’euro, sebbene non nel modo in cui piace pensare a Tremonti e ad alcuni suoi colleghi. Molti italiani credono sinceramente che il passaggio dalla lira all’euro abbia provocato un’esplosione dell’inflazione che ha ridotto il tenore di vita ed eroso la competitività. Credono che questi problemi siano addirittura peggiorati perché l’euro è aumentato rispetto al dollaro. Persuasi da questo ragionamento, alcuni nella Lega Nord, in particolare Roberto Maroni, il ministro del welfare, sostengono che la lira dovrebbe ritornare in vigore. Maroni ha anche tentato di raccogliere firme sufficienti per indire un referendum sulla questione. Mario Monti, precedente membro della Commissione Europea ed ora Presidente dell’Università Bocconi di Milano, fa notare che la Lega Nord ha fatto un completo dietrofront. A metà degli anni ’90, era così entusiasta della moneta unica che voleva che il nord (Padania) vi aderisse da sola se l’insieme della Nazione non fosse stata in grado di accettare le condizioni.
In realtà l’euro non è stato così negativo per l’Italia come suggeriscono i critici. L’inflazione, che si è ridotta notevolmente con l’entrata dell’Italia nel regime di tasso di cambio fisso del 1999, è rimasta bassa; infatti, questo è stato uno dei vantaggi principali dell’appartenere all’euro. Il passaggio alle monete e banconote dell’euro tre anni dopo ha avuto un effetto trascurabile sul livello generale dei prezzi, secondo il generalmente affidabile ISTAT. Effettivamente il prezzo di alcuni prodotti e servizi comuni sono cresciuti vertiginosamente perché alcuni commercianti hanno approfittato della confusione che c’era al momento del passaggio. Ristoranti e bar sono certamente colpevoli di averne approfittato: da qui nasce la lamentela comune che il prezzo del caffé sia raddoppiato nel giro di una notte. Il governo avrebbe dovuto fare di più per fermare simili speculazioni. Ma questa manipolazione non spiega la questione, che anche ai politici più anziani piace tirare in ballo, che molte società italiane hanno deciso di convertire tutti i loro prezzi a 1.000 lire per €1, anziché al tasso corretto di 1.936 lire per €1.
Un modello diverso
E’ innegabile che l’euro abbia rotto per forza l’abitudine italiana di avere una frequente svalutazione. In realtà, l’appartenenza alla moneta unica ha costretto l’Italia a cambiare l’intero modello economico. Invece di fare affidamento su un’inflazione elevata, su deficit elevati e sulle svalutazioni della moneta, ha dovuto imparare a vivere con un’inflazione bassa, deficit bassi e una moneta europea unica fissa. Non sorprende che un simile adattamento sia stato doloroso, e per il momento rimane incompleto, specialmente perché l’inflazione dei prezzi e dei salari è ancora più elevata che in altre nazioni dell’euro.
Significa questo che l’Italia avrebbe dovuto fare una scelta diversa? A Maroni e ai suoi alleati piace guardare alla Gran Bretagna e mostrare che una Nazione può prosperare all’interno della UE senza aderire all’euro. Tuttavia il paragone è fuorviante. La Gran Bretagna non ha seguito una via di inflazione elevata, deficit elevato e svalutazione frequente fuori dall’euro, quindi allo stesso modo non sarebbe stato possibile per l’Italia. Le improvvise svalutazioni della lira nel 1992, e di nuovo nel 1995-96, hanno provocato violente reazioni in altre nazioni europee, in particolare in Francia. Se l’Italia avesse persistito in questa pratica, sarebbe stato difficile pensare a un mercato unico europeo.
Non piangere per me, Italia
L’Italia avrebbe anche potuto far fiasco in modo più drammatico. Per questo c’è un altro esempio più sconcertante, che è quello di una Nazione che ha preferito andare per la sua strada: l’Argentina. Il paragone preoccupante non è il fatto che l’Argentina sia un Paese con un forte patrimonio italiano o il fatto che una volta fosse una Nazione ricca e che sia diventata relativamente più povera, bensì il fatto che abbia adottato una variante estrema del vecchio modello italiano: inflazione elevata, spesa pubblica elevata, deficit alto e svalutazioni frequenti. Tutto ciò si è fermato nel 1991, quando l’Argentina ha adottato il suo piano di “convertibilità” per fissare il peso contro il dollaro, l’equivalente della decisione dell’Italia di unirsi all’euro nel 1998. Tuttavia in Argentina, l’inflazione, la spesa pubblica elevata e il deficit hanno persistito. Il risultato è stato la perdita di competitività e una straziante recessione; e, in gennaio 2002, l’improvviso crollo del piano di convertibilità proprio mentre l’Argentina si è svalutata ed è diventata inadempiente (che, tra l’altro, si è dimostrata costosa per i risparmiatori italiani, molti dei quali avevano fortemente investito sul debito argentino).
E’ una storia tetra, e molti analisti pessimisti prevedono un destino simile per l’Italia. Tuttavia l’analogia con l’Argentina avrebbe potuto essere ancora più simile se l’Italia avesse mantenuto la lira, e sarebbe stata così soggetta allo stesso tipo di pressione speculativa che alla fine ha rotto il collegamento dell’Argentina col dollaro. Per esempio, un’Italia fuori dall’euro non sarebbe uscita relativamente illesa in seguito alle recenti dimissioni di Siniscalco e alla conseguente discussione sulla questione del governatore della Banca d’Italia (vedere la tabella nel prossimo articolo).
Infatti, è stata l’appartenenza all’euro che ha reso sopportabile il carico del debito pubblico italiano, grazie al taglio netto sui costi dei servizi. Siniscalco dichiara che, quando era Ministro delle Finanze, ringraziava Dio ogni giorno per l’euro, senza il quale il suo lavoro sarebbe stato ancora più impossibile di quanto non lo fosse già. Anche la maggior parte delle società italiane sostengono fortemente la volontà di continuare ad appartenere all’euro.
Questo implica comunque che, per rimanere competitivi senza ricorrere alla svalutazione, l’Italia deve introdurre riforme strutturali in grado di promuovere la produttività e mantenere i costi bassi, oltre a sistemare le finanze pubbliche. L’euro ha mostrato, in realtà, le vere debolezze dell’Italia, che sono microeconomiche per natura. Queste includono rigidità nei mercati dei prodotti e del lavoro e concorrenza insufficiente. Questi problemi strutturali sono condivisi, in certa misura, da tutti i Paesi della zona euro, ma spesso in Italia sembrano più gravi. Verranno analizzati più in dettaglio nel prossimo articolo.
Se niente viene fatto, è possibile che l’Italia finisca per seguire le tracce dell’Argentina ed essere costretta a lasciare l’euro, svalutarsi e probabilmente diventare inadempiente? In un paese che fa parte del gruppo dei ricchi G7, un evento simile sarebbe catastrofico e questo potrebbe essere il motivo per cui i mercati finanziari non sembrano aspettarselo. La crescita del debito italiano oltre al debito tedesco rimane relativamente bassa. Ma è aumentata più o meno nell’ultimo anno, e le agenzie di valutazione del credito hanno cominciato a dare l’allarme sul debito del governo italiano, che è il terzo più grande al mondo. E’ altamente improbabile che l’Italia lasci l’euro, volontariamente o no. Anche in questo caso, il Paese dovrebbe fare attenzione agli avvertimenti che stanno cominciando ad arrivare dai mercati.
Paradossalmente, sebbene l’appartenenza all’euro ha reso più urgente per l’Italia affrontare i suoi errori strutturali, ha anche reso più facile evitare di fare così, tagliando i tassi d’interesse ed eliminando la crisi del tasso di cambio. Come scrive l’OCSE nel suo più recente rapporto sull’Italia: “E’ in un certo modo ironico che l’appartenenza all’UME…possa, in realtà, aver rallentato il bisogno di correzioni strutturali necessarie sia per la parte dell’offerta che per la parte fiscale”.
Qualcosa di simile è avvenuto in Argentina dopo che questa ha adottato il piano di convertibilità: la gente ha cominciato a credere che accettare un tasso di cambio permanentemente fisso fosse di per sé abbastanza per risolvere i problemi dell’economia. In entrambi i Paesi, il nuovo regime del tasso di cambio fisso viene visto come il punto finale delle riforme, piuttosto che come un preludio a correzioni strutturali più ampie. Ora più che mai, in Italia, c’è bisogno di tali correzioni.
STRUTTURALMENTE INSTABILE
Così semplice individuare cosa c’è che non va, così difficile rimettere le cose a posto
Durante lo scorso decennio o ventennio, gli errori strutturali dell’economia italiana sono diventati brutalmente evidenti. Il fatto che per molti anni siano stati visti non come debolezze bensì come punti di forza, li rende ancora più difficili da gestire. Dopo aver chiesto a Francesca Bettio, un’economista all’Università di Siena, cosa c’e che non va con l’Italia, essa ha risposto immediatamente: la famiglia. E’ responsabile del fatto che la maggior parte delle imprese italiane siano private e di piccole dimensioni; ciò ha contribuito a ridurre il tasso di partecipazione femminile nella forza lavoro; ed è, perlomeno in parte, responsabile della ridotta mobilità sociale e lavorativa.
Tuttavia, per molti anni dopo la seconda guerra mondiale, la famiglia è stata considerata un vantaggio, non uno svantaggio, nelle società italiane. Ciò si vede chiaramente nella proliferazione di (spesso di proprietà della famiglia) società di piccole dimensioni in tutto il nord Italia, molte delle quali riunite in gruppi: articoli di lana a Biella, prodotti tessili in cotone a Varese, calzature ad Ascoli Piceno, indumenti a maglia a Carpi, abbigliamento da donna intorno a Treviso (sede di Benetton, tra le altre) e così via. In uno stesso momento, questi gruppi sono apparsi negli studi delle scuole aziendali come risorsa chiave della potenza economica italiana, soprattutto al nord, ora una delle regioni più ricche d’Europa.
Infatti, l’Italia nell’insieme è diventato un argomento di studio del “piccolo è bello”. Circa i 2/3 degli industriali fanno parte di imprese con meno di 100 dipendenti, in confronto al 37% in America e al 31% in Germania. L’Italia ha più piccole e medie imprese di qualsiasi altra Nazione in Europa: circa 4.5 milioni o, a grandi linee, un quarto del totale all’interno dei 15 Paesi della UE (vedi tabella 3).
Lo svantaggio di avere molte piccole imprese è legato alla mancanza di quelle grandi. Per un membro del G7, l’Italia ha decisamente poche grandi società: per molti anni la lista si è estesa a malapena oltre la Fiat che, ad un certo punto valeva quasi per il5% del Pil dell’Italia. Una delle ragioni di questa situazione è il forte peso dello stato che possedeva la maggior parte delle grandi banche, dei servizi pubblici e perfino molte società industriali. La IRI, la gigantesca holding statale originariamente creata da Mussolini, era amministrata nientemeno che da Romano Prodi. Ancor oggi, molte tra le grandi imprese in Italia sono banche e società di servizi pubblici che in passato erano di proprietà dello stato. Negli ultimi 20 anni, mentre le piccole belle imprese italiane raccoglievano così tanta approvazione, il Paese ha perso molta della sua presenza in industrie quali quelle chimiche, farmaceutiche, informatiche e di lavorazione dei prodotti alimentari.
Quando grande è meglio
Cosa c’è di sbagliato nell’avere molte imprese di piccole dimensioni? Possiamo dare due risposte. La prima è che la globalizzazione e la concorrenza da parte dell’Asia (e in particolare la Cina) hanno dato molta importanza alle dimensioni. Negli anni ’60 e ’70 era sufficiente rifornire il mercato interno o, come distanza massima, quei Paesi vicini come Francia e Germania, e fare affidamento sulla banca locale per ottenere finanziamenti. Ora, per avere successo, una compagnia come Benetton deve crescere fino al punto da rifornire un mercato mondiale e far arrivare i suoi prodotti al di là del confine italiano; è quotata non solo sul mercato di Milano, ma anche su quello di New York.
Il mercato azionario italiano è minuscolo in confronto alle dimensioni dell’economia, con meno di 300 società quotate. Il direttore generale del mercato, Massimo Capuano, ha molta ambizione di attirarne di più, in particolare attraverso uno speciale secondo mercato per le imprese più piccole. Ma molti proprietari di queste società si oppongono ad ogni perdita di controllo e inoltre non amano affidarsi a finanziamenti esterni. Ristabilire la fiducia pubblica in un mercato che è stato duramente colpito nel dicembre 2003 quando Parmalat, uno dei gruppi alimentari più grandi d’Italia è fallito, si sta dimostrando impegnativo. Parmalat aveva dichiarato falsamentedi avere molta liquidità.. La legislazione del governo per migliorare il controllo societario come conseguenza dello scandalo è attualmente insabbiata in Parlamento.
L’altro problema dovuto alle piccole società è che troppe sono nei settori sbagliati, avendo fatto affidamento troppo a lungo sul lavoro a basso costo per un loro vantaggio competitivo. Le industrie tessili del nord, che hanno passato gran parte dell’anno scorso a piagnucolare per ottenere protezione, sono esempi classici. Per dieci anni sono stati messe in guardia sulla debolezza dell’Accordo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio nei settori Tessile e dell’Abbigliamento che limitavano le importazioni dai Paesi in via di sviluppo. Tuttavia, quando l’accordo è scaduto all’inizio di questo anno, molte imprese si sono affrettate a chiedere a Bruxelles restrizioni “volontarie” sulle importazioni cinesi. Altri si sono uniti al coro che attacca l’appartenenza dell’Italia all’euro. Veramente pochi sembravano disposti ad addossarsi la colpa di non esser riusciti a creare nuove nicchie basate su un buon design, su un’analisi del mercato o sull’uso della tecnologia, piuttosto che sul lavoro a basso costo.
Tuttavia, ci sono molti esempi di imprese italiane che hanno avuto successo, tra le quali alcune di piccole dimensioni, che hanno effettuato cambiamenti. Quindici anni fa la Benetton produceva quasi il 90% dei suoi capi in Italia; ora, la quota è scesa a meno del 30%. Geox, un innovativo produttore di scarpe, fabbrica la maggior parte dei suoi prodotti all’estero, come anche fa Luxottica, la prima produttrice al mondo di occhiali da sole. Negli elettrodomestici, Merloni (ora Indesit) che è stata costituita 30 anni fa, è diventata la terza fornitrice di frigoriferi, fornelli e lavatrice più grande in Europa. Il fondatore, Merloni, che è ancora il Presidente, fa notare che quasi la metà dei prodotti è fabbricata all’estero, incluso in Cina, che lui per primo ha visitato nel 1975. La Cina è anche, si lamenta, una fonte di prodotti contraffatti, completi di etichetta “Made in Italy” e perfino della garanzia di lavaggio in lavatrice.
Un altro esempio che ha avuto successo è Cerutti, un produttore di sofisticate macchine da stampa, con sede a Casale Monferrato, vicino a Torino. Il Presidente, Giancarlo Cerutti, ricorda che quando suo padre ha aperto l’attività dopo la seconda guerra mondiale, aveva sette rivali. Ora c’è solo un altro produttore di grandi macchine da stampa e Cerutti controlla quasi il 60% del mercato mondiale. La società rifornisce molti giornali e riviste in Europa, come anche diverse in America. Recentemente ha comprato un impianto di produzione in Cina. Ha, inoltre, un centro tecnico in India, che si serve di alcuni tra i più bravi ingegneri della Nazione. La più importante società italiana di computer, la Olivetti, è fallita a metà degli anni ’90, ma ci sono alcuni casi che hanno avuto successo anche nell’informatica-e non solo nel nord. Vicino a Catania, in Sicilia, la ST Microelectronics, un produttore di microchips, fa parte di un esuberante gruppo di alta tecnologia. La ST è stata fondata negli anni ’60, ma era sull’orlo della bancarotta quando Pasquale Pistorio, ora Presidente onorario, l’ha risollevata all’inizio degli anni ’80. Pistorio non solo ha rimesso in sesto l’azienda, ma l’ha anche ingrandita grazie all’apertura di stabilimenti produttivi vicino a Napoli e a Bari. Come riconoscimento ha solo una laurea in ingegneria.
Tuttavia anche Pistorio ammette che l’Italia ha molti problemi. Fa notare che le esportazioni dei prodotti high-tech costituiscono solo un 12% del totale, la metà della media europea. L’Italia investe solo l’1.1% del Pil nella ricerca e nello sviluppo, rispetto alla media di quasi il 2% della UE e del 3.2% del Giappone. La burocrazia e il sistema giudiziario sono lenti, la liberalizzazione incompleta, le infrastrutture povere, e il “blocco” fiscale che fa salire i costi del lavoro è uno dei più grandi d’Europa. Pistorio ritiene che il governo di Berlusconi non sia riuscito a creare le giuste condizioni per attirare investimenti, sia da fonti interne che dall’estero, e non abbia fatto abbastanza per incoraggiare l’innovazione.
Il tema viene ripreso vigorosamente da Luca Cordero di Montezemolo, Presidente della Fiat e di Confindustria, la lobby imprenditoriale italiana. Montezemolo sa tutto sulle inversioni di tendenza negli affari: ha risollevato la Ferrari ed ha aiutato la Fiat Auto a tirarsi fuori dalla situazione in cui si trovava. Tuttavia la ripresa economica della Fiat deve tanto all’aspetto finanziario, meno alla parte industriale. Essa ha ottenuto denaro in contanti dalla GM in modo che la compagnia automobilistica americana abbandonasse l’idea di comprare imprudentemente l’intera società, ed ha insistito a far convertire alcuni dei prestiti in azioni ordinarie dalle sue banche. Che abbia o no una lunga vita, dipenderà dai nuovi modelli, e in particolare dalla nuova Fiat Punto.
Seduto nel suo ufficio a Maranello, a sud di Modena, sopra la linea di produzione della sgargiante Ferrari, Montezemolo dice che sarebbe grave se l’Italia non riuscisse ad introdurre riforme strutturali. In cima alla sua lista c’è una maggiore concorrenza che tra le altre cose richiederà maggiore privatizzazione. Altre priorità per la riforma sono: cambiamenti nell’istruzione, comprese le università; infrastrutture, in tutto il Paese; pubblica amministrazione, compreso il lento e tortuoso sistema giudiziario, che egli vede come un deterrente contro gli investitori stranieri; e, facendo eco a ciò che ha detto Pistorio, più innovazione e investimenti nella ricerca e nello sviluppo.
Montezemolo dice chiaramente che l’imprenditore italiano è profondamente deluso del governo di centro-destra di Silvio Berlusconi, che aveva promesso così tanto quando è entrato in carica nel 2001. Allora Berlusconi aveva detto a Confindustria “il vostro programma è il mio programma” ma non l’ha rispettato. Tuttavia Montezemolo non limita la sua critica a Berlusconi: attacca tutti i politici che hanno governato il Paese negli ultimi 20 anni per non esser stati in grado di prendere decisioni difficili. Non accetta neppure che governi consapevoli dell’importanza delle riforme perdano sempre le elezioni, citando esempi opposti come la Gran Bretagna.
Sarebbe sbagliato dire che il governo di Berlusconi non ha fatto niente nel campo delle riforme. In due settori, le pensioni e il mercato del lavoro, è stato abbastanza vigoroso, sebbene abbia aggiunto cambiamenti già stabiliti nel corso dei governi precedenti. Considerate le prospettive demografiche, l’Italia deve fare ancora di più per ridurre l’incredibile peso delle pensioni; e il governo ha vergognosamente posticipato al 2008 l’avviamento di alcune tra le più dolorose riforme. Ma grazie all’innalzamento dell’età pensionabile, al taglio dei costi delle pensioni e all’incoraggiamento di fondi pensione privati, ha fatto più di altre nazioni della UE per affrontare questo problema minaccioso.
Le riforme nel mercato del lavoro sono state ancor più sorprendenti. La legge Biagi, così chiamata dopo che Marco Biagi, un consulente del mercato del lavoro assassinato a causa del suo progetto, ha esonerato molti nuovi lavori part-time dalle regole richieste per la maggior parte dei lavori fissi e a tempo pieno. Questo ha portato ad un boom di posti di lavoro part-time e a tempo determinato. La privatizzazione degli uffici di collocamento e i cambiamenti nei contratti di apprendistato porterà maggiore flessibilità nel mercato del lavoro italiano, assicura Maurizio Sacconi, il ministro responsabile.
Sacconi sostiene che, negli ultimi 5 anni, l’Italia ha creato una rete di 1.2 milioni di nuovi posti di lavoro, 700.000 dei quali per le donne; un risultato migliore di qualsiasi altra Nazione in Europa (inclusa la Gran Bretagna). Tuttavia, sebbene il tasso di disoccupazione complessivamente, al momento appena sotto l’8%, sia relativamente basso rispetto ai parametri europei, Sacconi riconosce che rimane elevato tra i giovani (quasi il 23%), gli anziani e nel sud.
Inoltre, la registrazione dell’elevato tasso d’occupazione ha una riduzione: una crescita di produttività pari a zero o addirittura negativa (vedi tabella 4), oltre a lavoratori più marginali e meno produttivi che sono stati inseriti nella forza lavoro. E’ proprio la combinazione di una scarsa crescita di produttività e un aumento dei salari che ha causato una crescita dei costi del lavoro unitario molto più velocemente di quelli di altri membri dell’euro durante questi 7 anni, da quando è entrato in vigore l’euro.
Così tanto da fare
Siniscalco, che si è dimesso come ministro delle finanze alla fine di settembre, elogia le riforme del mercato del lavoro e delle pensioni attuate dal governo, ma riconosce che troppo poco è stato fatto per aumentare la concorrenza, liberalizzare parti protette dell’economia o favorire le privatizzazioni (infatti, il governo di centro-sinistra in carica prima di Berlusconi ha ceduto più attività di quanto non abbia fatto lui). Come nell’applicazione dell’accordo UE di Lisbona sulla riforma economica, l’Italia è risultata costantemente agli ultimi posti nei rilevamenti del Centro che si occupa delle riforme europee e che ha sede a Londra - sebbene ciò ora potrebbe cambiare, visto che il ministro dell’Europa di ispirazione liberale, Giorgio La Malfa, è responsabile per l’Italia della strategia Lisbona.
Gli ostacoli ad una maggiore concorrenza in Italia sono innumerevoli. L’OCSE riconosce che l’Italia soffre della peggior regolamentazione del mercato d’Europa. I mercati energetici hanno bisogno di molta liberalizzazione in più se vogliono misurarsi con quelli più liberi d’Europa; in proporzione, i prezzi dell’energia in Italia sono elevati. Il governo rimane il maggior azionista singolo della ENI, la grande compagnia petrolifera, e dell’Enel, la principale società di elettricità. Tuttora possiede una golden share in Telecom Italia, sebbene abbia spinto alla vendita questa rimanente quota azionaria. L’imposizione antitrust (antimonopolistico) in generale è disuguale.
Anche il regime societario poco trasparente che esiste in Italia è stato un deterrente contro gli investimenti, e probabilmente anche contro la creazione di aziende di successo. Per anni, società anche abbastanza grandi sono state controllate da piccoli gruppi di azionisti, spesso attraverso una miriade di holding diverse. Mediobanca, una speciale banca d’investimento con sede a Milano, ha esercitato la sua influenza in modo discreto. Gli azionisti di minoranza venivano in gran parte ignorati. Più recentemente, la traballante economia italiana ha rivelato una serie di scandali societari che hanno indebolito la fiducia degli investitori.
La finanza, altro aspetto cruciale per una competitività economica, rappresenta un’altra grande debolezza dell’Italia. Le banche sono cambiate molto negli ultimi 15 anni: un’industria, che in passato apparteneva principalmente allo stato e che era fortemente frammentata, ora si è privatizzata per un 90%, e la Banca d’Italia ha incoraggiato una gran quantità di fusioni interne. Solo poche banche si sono distinte per essere il perno trainante: Banca Intesa, Unicredit, che quest’anno si è fusa con HVB tedesca, Sanpaolo IMI e Capitalia. Tuttavia, la Banca d’Italia, ha cercato di escludere possibili investitori stranieri, cosa che potrebbe aiutarci a capire perché la commissioni bancarie (e gli utili) sono tra i più elevati in Europa. Il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, non ha agito nel modo migliore cercando di prevenire l’acquisizione di una banca italiana da parte di una straniera all’inizio di questo anno (vedi “La follia di Fazio”).
L’attività bancaria non è la sola a trarre vantaggio dalla protezione del suo stesso controllore. Non c’è sufficiente concorrenza nei servizi in generale, e questo influisce abbastanza perché la quota dei servizi nell’economia italiana, come da qualsiasi altra parte, sta salendo: ora questi servizi ammontano a due terzi del Pil. Piccoli negozi, compagnie di taxi, farmacie, notai, commercianti: nella terra che ha inventato le corporazioni nel Medioevo, la maggior parte di queste compagnie sono ancora protette da regole speciali contro la concorrenza, spesso amministrate da autorità locali. Come esempio, Vito Tanzi, precedente direttore dell’Italia alla IMF a Washington, DC, ci riporta il racconto di un uomo che voleva aprire una pescheria in un piccolo paese a Apulia ma che gli è stato negato dal comune col pretesto che il paese ne aveva già una.
Il turismo è un’altra area che trarrebbe beneficio sia da un maggior investimento che da una maggiore concorrenza. Per una Nazione che ha così tanto da offrire nel campo della cultura, della natura, del clima e della cucina, l’industria turistica italiana è sorprendentemente sottosviluppata – e i prezzi degli alberghi e dei ristoranti sembrano eccessivamente elevati. Nel 1970 l’Italia era il top tra le destinazioni turistiche mondiali. Oggi si trova al 5° posto, dopo Francia, Spagna, America e Cina.
Un problema generale è che l’intero concetto di servizio è piuttosto sottovalutato. Infatti l’Italia dà spesso l’impressione di soffrire di una diffusa cultura anti-affari e anti-cliente. Gli italiani possono essere creativi ed avere uno spirito imprenditoriale ma non sono affatto a favore del mercato. Nessuno tra i due principali partiti politici del dopoguerra, i Cristiani Democratici e i Comunisti, possono essere descritti come economicamente liberali. E non lo è neanche la Chiesa Cattolica che
ha avuto sempre una certa timidezza nell’incoraggiare la ricerca del profitto.Ad ogni modo in Italia hanno più successo gli uomini d’affari che sfruttano i loro contatti e cercano favori dallo Stato piuttosto che coloro che fanno nascere nuove società o cercano di dare servizi migliori ai clienti.
Un eccellente esempio è quello di Berlusconi, il cui successo negli affari è stato ampiamente dovuto all’aiuto e alla protezione che ha ricevuto da certi politici italiani.
Questa preferenza culturale per la ricerca di favori e la creazione di monopoli protetti al di sopra della concorrenza del libero mercato potrebbe richiedere molto tempo per essere cambiata. Questo si riflette, naturalmente, anche nella politica italiana. Perché i politici italiani, di entrambe le parti, sono stati così lenti ad accogliere nuove riforme e quali sono i prospetti per un cambiamento?
LA FOLLIA DI FAZIO
Un banchiere centrale troppo indipendente per essere consolato
La Banca d’Italia era vista con fiducia dagli italiani che, per quanto inefficienti potessero essere le altre istituzioni del Paese, almeno su questa facevano affidamento. Negli anni ’90 ha anche soddisfatto le richieste di due Primi Ministri, Carlo Azeglio Ciampi (oggi Presidente della Nazione) e Lamberto Dini. Ma la credibilità della banca centrale è stata rovinata dal comportamento intransigente di colui che è stato governatore dal 1993, Antonio Fazio.
Fazio per molto tempo si è opposto all’acquisizione di banche italiane da parte di società straniere. Ciò nonostante, all’inizio di questo anno, una banca spagnola, la BBVA, e una olandese, la ABN Amro, hanno fatto delle offerte per ottenere due banche italiane. Fazio ha promosso offerte nazionali così concorrenziali che la Commissione Europea ha chiesto se l’Italia stava facendo delle discriminazioni contro le altre nazioni della UE. Le banche centrali di altre nazioni europee possono avere i loro modi per scoraggiare offerenti stranieri, ma nessuno è stato così partigiano a riguardo come lo è stato Fazio.
Precisamente, Fazio ha perseguito delle politiche perfettamente sensate, promuovendo la privatizzazione e la fusione tra banche italiane. Tuttavia la sua risposta all’offerta di ABN Amro per la Banca Antonveneta è stata assurda. Egli ha respinto le opinioni dei suoi consiglieri, appoggiando l’offerta rivale da parte della Banca Popolare Italiana, una precaria istituzione gestita da un suo caro amico, Gianpiero Fiorani. Intercettazioni telefoniche, trapelate dai querelanti, hanno registrato una telefonata avvenuta dopo mezzanotte, in cui Fazio diceva a Fiorani di aver appena approvato l’offerta. Ma quando è diventato chiaro quanto instabili fossero le finanze della BPI, questa offerta è crollata e ABN Amro ha vinto la battaglia.
Per Fazio la faccenda non è affatto finita. Il suo intervento è stato attaccato da tutte le parti. I suoi amici erano pronti a scoprire una cospirazione anti-cattolica, massonica, o addirittura ebraica contro di lui (Fazio è un ardente cattolico che va a messa ogni giorno). Membri del governo esasperati, compreso il ministro delle finanze, Domenico Siniscalco, hanno richiesto le sue dimissioni. Quando Siniscalco ha perso la fiducia del governo, si è dimesso (sebbene non unicamente a causa dell’affare Fazio; una parte l’hanno giocata anche i problemi relativi al budget del 2006). Dopo l’allontanamento di Siniscalco, anche il primo ministro, Silvio Berlusconi, ha chiesto a Fazio di andarsene ed ha suggerito che anche la Banca Centrale Europea lo mandasse via.
Il guaio è che, a metà degli anni ’90, il governo italiano, impaziente di unirsi all’euro, ha dato più indipendenza alla banca centrale di quanto non avessero fatto le altre nazioni in Europa. La nomina di Fazio è una nomina a vita. Egli crede di non aver fatto niente di male ed è riluttante a sacrificare il suo posto di banchiere centrale più pagato in Europa. Può essere rimosso solo dal consiglio d’amministrazione della Banca d’Italia, che tecnicamente è un’istituzione privata-e la maggior parte dei membri del consiglio sono stati scelti dallo stesso Fazio.
Il governo ha emanato una nuova legge per nazionalizzare di nuovo la Banca e assoggettare così il governatore a un limite temporale, ma questa si trova ancora in Parlamento. L’ardito Fazio ha dimostrato di avere amici importanti, non solo all’interno del Vaticano ma anche all’interno di Lega Nord e di Alleanza Nazionale e perfino tra alcuni dei partiti dell’opposizione. Il controsenso è che, qualsiasi tipo di pressione subisca, egli resterà in carica fino alle prossime elezioni, e anche allora potrebbe non dare le dimissioni. Dopo tutto, all’età di 69 anni, è più giovane di Berlusconi di due settimane. Perché dovrebbe ritirarsi prima de Il Cavaliere? |
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